Cos’è l’urbex

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Cos’è l’urbex?


Nel 1861 il poeta Walt Whitman descrive in versi le sue incursioni nel tunnel abbandonato dell’Atlantic Avenue nel quartiere di Brooklyn. Un antesignano illustre per la urban exploration (abbreviata in urbex o UE), un fenomeno in espansione in tutto il globo, che coinvolge migliaia di persone di ambedue i sessi e individui di ogni età.

Chi è l’urbexer?

L’urbexer (colui che pratica l’urbex) esplora “zone d’ombra” con il massimo rispetto, senza invasioni o manomissioni. E’ “ospite” e esploratore di strutture forgiate dalla mano dell’uomo, spesso in abbandono, in rovina, dimenticate, desolate o rese off-limits. I luoghi che visita sono numerosi e di diverso tipo: siti industriali dismessi, ospedali o manicomi inagibili, installazioni militari abbandonate, fabbriche cadute in disuso, castelli e monumenti dimenticati, casolari disabitati, fognature e scarichi, ville e sotterranei.  Si muove in gruppo o singolarmente, ciò che è “nascosto” e “invisibile” alla vista di qualunque passante, per lui è un tesoro nuovo da scoprire, una nuova avventura in cui catapultarsi, un nuovo pericolo con cui confrontarsi.

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Perché i luoghi abbandonati?

Gli edifici abbandonati acquistano così uno “scopo” diverso da quello per cui erano stati originariamente progettati. Nell’abbandono la natura ritorna ad essere struggente: l’edera avvolge lentamente le pareti e la ruggine dipinge le porte d’acciaio in patine multicolori. È questa zona “grigia”, questa fragilità strutturale capace di abbattere l’ordine del costruito, tra civiltà e natura, che l’esploratore trova particolarmente attraente. Il tempo, co-artista materiale di tutto ciò, modella il soggetto, lo rende apprezzabile per il gusto dell’urbexer. I suoi spazi, relativamente liberi da una regolamentazione performativa ed estetica, sono siti in cui la città scompare, riapparendo sotto un’altra forma. Un’area urbana che viene reinterpretata attraverso la contrapposizione e la sovrapposizione di memorie, corridoi, muri, polvere, travi e corpi.

Lo spazio abbandonato è incerto, fluido, pieno di forze, ostacoli, energie e correnti differenti. L’esploratore si muove in diverse direzioni e oltre a balzare dal presente al passato e viceversa, può rimanere intrappolato in un limbo, una capsula spazio-temporale. L’urbexer si mette alla prova abbandonando, oltrepassando e fendendo l’ambiguità di questi confini. Il potere del proibito e dell’abbandono scaturisce turbamenti ed emozioni intime.

Come direbbe Marc Augè, i luoghi abbandonati all’interno del fenomeno dell’esplorazione urbana sono identitari, portatore di memoria, relazioni sociali, storici e di appartenenza. Luoghi in grado di risvegliare emozioni profonde e storie perdute, terreno fertile di desio e timori che si intreccia col vissuto dell’esploratore.

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Storia dell’esplorazione urbana (urbex)

La gente si avventura in luoghi abbandonati da tempi lontani, tuttavia il termine “esplorazione urbana” è stato per la prima volta coniato in un’edizione del 1996 dalla rivista “Infiltration”.
Oltre a Whitman, tra gli urbexer si possono annoverare altri personaggi noti. I dadaisti parigini ad esempio, che nel 1920 organizzarono dei tour attraverso una chiesa deserta e altri siti “che non avevano ragione di esistere”. Gli studenti del MIT (Massachusetts Institute of Technology), una volta tornati negli Stati Uniti alla fine degli anni 50, hanno guidato escursioni in gallerie e nei tetti intorno al loro campus chiamando “hacking” la loro pratica, un termine che decenni più tardi è stato adottato dal parlato “tecnico” dell’urbex.
Negli ultimi vent’anni, in particolare a partire dalla metà degli anni 2000, un’emergente subcultura globale si è coalizzata attorno all’esplorazione urbana. Centinaia di migliaia di blog e forum di discussione online sono stati facilitati dall’avvento dell’internet. Blog come urbexplayground, Urbexnl e Urbex-travel raccolgono innumerevoli luoghi abbandonati ed esplorazioni urbane attorno al globo e ne documentano la storia attraverso articoli e immagini. La cultura dell’UE forgia una propria identità da cui emerge una comunità sottoposta a regole ben precise. Una piccola ma crescente letteratura di ricerca ha accompagnato la proliferazione della pratica. E’ sufficiente leggersi i saggi di Bennett del 2011 a quelli di Garrett, 2013 o Mott and Roberts.

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Chernobyl

Vita Eroica, Edgeworker e urban exploration

Ma la pratica dell’urbex oltre alle emozioni può offrire anche qualche problema. Come ci racconta James Nastor nel suo articolo del 2007 “The art of urban exploration”, il legno marcito, i residui chimici, i chiodi arrugginiti e affilati come rasoi e il terreno instabile sono minacce costanti nella maggior parte dei siti abbandonati. È responsabilità dell’esploratore evitare la morte o il ferimento in queste aree.

Alla domanda: “Quale ragione ti ha portato a visitare Chernobyl”, i due urbexer di Kiev Vladimir e Artyom, frequentatori di Chernobyl, mi hanno risposto “Una tale opportunità così vicina a me, volevo provare l’estremo. I luoghi abbandonati a Kiev non mi interessavano, ero interessato a qualcosa di più grande e di più distante”.

 Artyom aggiunge “La motivazione è ovvia, chi non vorrebbe vedere come potrebbe essere la Terra quando la razza umana si estinguerà? “.

 Queste esplorazioni sono prove da superare per adempiere a quella che il sociologo Mike Featherstone chiama “vita eroica”, fatta di avventure, coraggio, brivido, adrenalina che si confrontano col rischio della morte. La trasgressione e la violazione di alcune norme è fonte di vitalità.

Per indicare il luogo dove si negoziano le norme e si contestano i confini, il rischio delle esperienze pericolose che alcuni gruppi intenzionalmente cercano con il piacere che ne consegue, Stephen Lyng ricorre al termine edgework, “esperimenti estremi”, utilizzato già da Hunter S. Thompson. Questa combinazione di intensa eccitazione emotiva e attenzione focalizzata porta gli “edgeworker” a sperimentare alterazioni nella percezione del tempo e dello spazio, sentimenti di “iperrealtà” con un senso dell’esperienza come profondamente autentica e viva.

L’edgework rappresenta sia una sfida ai limiti, alle routine quotidiane e alle aspettative sociali, sia un maggiore senso di controllo della paura. In sostanza gli urbexer navigano sul bordo in cui la conformità, la sicurezza e il brivido trovano un punto di equilibrio. Deborah Lupton, riprendendo Stephen Lying, concepisce l’edgework come test emozionali che si insediano in confini ben delineati “il confine tra la vita e la morte, tra cui la coscienza e l’inconscio, tra la salute mentale e la pazzia, tra l’esperienza di sé e di un ambiente ordinato e l’esperienza di un sé e un ambiente sottosopra”.

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